Ancora sulla selvicoltura

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Attività dei “Forestali del CFS”.

 

Mi scuseranno i miei «25 lettori» (anzi un po’ meno) se ritorno sul tema trattato in precedenza: cos’è la «selvicoltura» e cosa si intende correntemente per «scienze forestali». Dicono sia «utile ripetere le cose» (Repetita iuvant) – massima opinabile, perché obsoleta e non sufficientemente comprovata. È probabile piuttosto che il ripetitivo dissertare su temi «accademici» annoi e provochi sonnolenza.
Contratto Nazionale Operai Forestali

Contratto Nazionale Operai Forestali

Chiedo pertanto venia al buon Morfeo, dispensatore di soporiferi sonni, se mi attardo a discutere su questi temi – a prima vista – futili, ma che acquistano una certa importanza quando si ha a che fare con il fisco, i datori di lavoro, l’amministrazione pubblica, le assicurazioni, ed altri ancora. Questi soggetti vogliono sapere con precisione quale attività svolgano in concreto i forestali, quali siano le loro fonti di reddito, i rischi che essi corrono e quant’altro può servire per un regolare svolgimento del lavoro nei boschi e nei territori montani, per la riscossione delle tasse, per l’imposizione di balzelli e per tutto ciò che garantisce sicurezza, benessere e tranquillità alle superstiti popolazioni montane.

Se nel comunicare ci si attenesse a regole logiche e si facesse uso di una corretta terminologia, tenendo conto che «La semplicità è il sigillo della verità» (Simplex sigillum veri – Bacone) si sarebbero potute evitare queste noiose disquisizioni, ma, razzolando nella copiosa produzione scientifica del professor Ciancio, ho trovato una osservazione meritevole di attenta considerazione.
Leggendo la relazione introduttiva al mitico “Congresso di Taormina”, ho trovato questa lapidaria affermazione, smentita da una successiva ricostruzione storica sull’avvento della «selvicoltura» e delle «scienze forestali».
Nel suo discorso inaugurale al Congresso di Taormina (2008) il  professor Ciancio aveva affermato che l’origine delle «scienze forestali» risaliva al Medioevo e il nostro Paese, grazie ai frati benedettini e al giurista bolognese Piero Crescenzi (1233-1320), era stato la culla della «selvicoltura».

Disney, Grillo parlante

Disney, Grillo parlante

«Forse non tutti sono al corrente che la scienza forestale è nata in Italia», «… Storicamente essa risale al Medioevo ed esaurisce il suo impulso innovativo con l’emanazione delle disposizioni legislative della Repubblica Veneta.1

Questa congressuale affermazione che «scienza forestale» era nata in Italia nel Medioevo, aveva suscitato in me qualche perplessità, ma, visto il plauso unanime dei numerosi congressisti, ho pensato che questa straordinaria  scoperta data in anteprima ai forestali italiani, sarebbe stata accolta con interesse (e stupore) dagli storici, naturalisti ed epistemici «globali», che si interessano di «scienza» e in particolare di «scienza forestale». Purtroppo, con disappunto ho successivamente constatato che si trattava di un’affermazione retorica rivolta ad un pubblico che ama sentirsi dire che tra le prerogative dell’italico popolo rientra anche quella di «SELVICOLTORI».

Popolo di selvicoltori Alcuni anni dopo (2013) il professor Ciancio ci ha fatto sapere che l’inventore della «selvicoltura» è stato Varenne de Fenille, uno sventurato nobile francese vittima del Terrore. Con la consueta acribia filologica ho sostenuto che Varenne de Fenille non poteva aver usato il termine «selvicoltura» e neppure l’espressione «scienza forestale», perché sconosciuti al suo tempo (1792) e che queste espressioni gli erano state attribuite da Le Duc in epoca posteriore, sotto la «dittatura del positivismo», che catalogava come «scienza» ogni attività in cui fosse depositato un po’ di sapere positivo.
Rimane insoluto l’enigma: Chi ha scoperto la «selvicoltura» e le «scienze forestali»?
I monaci vallombrosani, Pietro De Crescenzi, Varenne de Fenille?

Gli studiosi hanno sempre sostenuto che la «scienza forestale» è derivata dall’integrazione di diverse discipline (scienze naturali, agrarie, sociali ed economiche) e che essa ha cominciato ad evolversi dal XVIII secolo in poi. La Germania è stata la culla del pensiero forestale e le «scienze forestali» si sono sviluppate facendo proprio il metodo scientifico galileiano  basato sull’uso combinato di teoria ed esperimento (tra il XVI e il XVII secolo).
Le pratiche empiriche di cura dei boschi adottate prima del XVIII secolo, per ottenere particolari prodotti oppure per controllare l’uso delle risorse forestali non si possono confondere con la «selvicoltura» o con le «scienze forestali». La «selvicoltura», come disciplina scientifica afferente alle «scienze forestali», inizia a prendere forma e ad affermarsi progressivamente, quando le prescrizioni colturali e le regole di gestione ed utilizzazione dei boschi cominciano a basarsi su conoscenze naturalistiche e ambientali acquisite mediante indagini oggettive e con l’applicazione dei metodi scientifici matematici del «secolo dei lumi». Non si può quindi parlare di «scienza» (se usiamo correttamente questo termine) prima della grande cesura prodotta dal pensiero rinascimentale e da Bacone, Newton, Galileo col modo antecedente di considerare e studiare la natura.
Si è convenuto anche che l’uso dei termini «scienza» e «scienziato» riferiti ad epoche precedenti, in particolare per quanto riguarda il metodo sperimentale, non è appropriato perché inclusivo di conoscenze che non derivano obbligatoriamente da principi logici univoci, da metodologie analitiche rigorose e da valutazioni sperimentali.2

Ora, è ardua cosa abbandonare queste tranquillizzanti certezze e far propria la convinzione del professor Ciancio che la «selvicoltura» sia nata nel XIII secolo perché alcuni ordini religiosi dissodarono  terreni incolti ed utilizzarono i boschi appenninici o le pinete di Ravenna3 e che si debba riguardare il libro di Piero De Crescenzi (Liber Commodorum Ruralium, pubblicato nel 1304), come un trattato di «selvicoltura» che ha contribuito a razionalizzare le pratiche forestali in tutta Europa.4 Se si adotta questo metodo storico per convalidare l’origine italica medievale della «selvicoltura», perché non far risalire agli scritti latini di agricoltura (Catone, Varone, Columella, Palladio, ecc.) la nascita anche della coltura delle selve.
Nessun studioso di storia forestale ha mai preso in considerazione questa tesi sull’origine della «selvicoltura», perché le indicazioni fornite sul modo di coltivare le selve erano del tutto empiriche, basate su una secolare tradizione pratica, prive di ogni pretesa dottrinale.  Dal punto di vista storico e logico non è ammissibile applicare a tempi remoti concetti ed espressioni del nostro tempo, per il fatto che essi, per effetto dello sviluppo sociale, economico e scientifico intervenuto, hanno assunto un significato ed una valenza completamente diversa, estranea alla realtà esaminata.
Affermare che nel XIII o XIV secolo è nata una «scienza forestale», oppure che in quell’epoca venisse applicata una «selvicoltura» scientifica è sbagliato, poiché in questo modo si introducono espressioni metaforiche laddove è imprescindibile evitare imprecisioni o espressioni figurate.

Senza voler essere pedante (“Chi si scusa, si accusa”), vorrei ricordare che si è creduto per lungo tempo che i grandi artefici della messa a coltura del bosco fossero stati i monaci, ma questo luogo comune è stato ampiamente sfatato dagli storici del Medioevo.

Carl Spitzweg Hermit vor der Klause, 1858-1860

Carl Spitzweg Hermit vor der Klause, 1858-1860

«I soli uomini di Dio che abbiano efficacemente partecipato con le loro mani all’assalto delle zone incolte e abbiano abbattuto alberi e aperto nuove terre arate, furono gli eremiti che, nei secoli XI e XII, vivevano numerosissimi ai limiti delle foreste d’Europa.
I Cluniacensi, i Benedettini di antica osservanza, conducevano infatti una vita di tipo signorile, quindi oziosa. Essi aspettavano di ricevere in dono della terra già bel e pronta, già fornita del personale necessario alla sua valorizzazione, dei «mansi vestiti», come allora si diceva, di uomini e di bestiame; e non si preoccupavano minimamente di dissodare. Alla fine dello XI secolo, nuovi ordini religiosi, più portati all’ascetismo, decisero di stabilirsi nella solitudine, cioè in mezzo alle terre incolte, restaurando al tempo stesso la dignità del lavoro manuale.5
Le prescrizioni per il governo delle selve e degli alberi dettate dal De’ Crescenzi sono importanti, perché rappresentano una sintesi delle conoscenze maturate nei secoli per l’impianto e la cura di fruttiferi; per aumentare mediante potature la quantità di foraggio; per migliorare con innesti la produzione arborea nei «boschi» o nelle «selve» alte e basse e nelle aree piantate a frutta. Non si può però affermare che questo trattato fosse «l’unica fonte cui attinsero i forestali europei», per il semplice fatto che, a quel tempo, le pratiche agricole, il pascolo, l’allevamento e la raccolta di legname e di altri prodotti del bosco erano empirici, spontanei, derivanti dall’integrazione completa dell’uomo con l’ambiente naturale. Allora non esistevano «forestali», specialisti esterni per la gestione della selva, ma al più carbonai, legnaioli, pastori, cacciatori, raccoglitori di erbe e frutti spontanei, che attraverso le loro conoscenze empiriche traevano beneficio dalla foresta. I trattati d’agricoltura (anche quello di De’ Crescenzi) raccoglievano le conoscenze empiriche accumulate nel tempo, le analizzavano criticamente e facevano una sintesi di quanto era noto al loro tempo.

Agricultural calendar from a manuscript of Pietro Crescenzi, written c. 1306

Agricultural calendar from a manuscript of Pietro Crescenzi, written c. 1306

Alla luce delle ricerche filologiche più qualificate, l’affermazione di Ciancio, secondo cui «Il suo libro (Opus ruralium commodorum) per diversi secoli fu l’unica fonte a cui attinsero i forestali europei» è quindi arbitraria e antistorica: vuota retorica per stupire e accattivarsi il pubblico forestale.6 Se il professor Ciancio voleva far risalire al XII o XIII secolo l’origine della «selvicoltura» perché non citare Ibn al Awwam (… – XII secolo), autore di un monumentale «Libro di agricoltura» in cui sono contenute straordinarie anticipazioni delle conquiste delle scienze moderne (pedologia, fisiologia vegetale, patologia veterinaria), come messo in rilievo da Antonio Saltini.7
Attribuire sensibilità «etiche», preoccupazioni «ecologiche» o visioni politico-sociali del presente a società lontane nel tempo per dimostrare la loro lungimiranza e impegno ambientalistico distorce i fatti storici ed introduce elementi ideologici limitativi per la comprensione della realtà. Purtroppo il professor Ciancio applica al bosco del Medioevo e, in genere, alle attività svolte in foresta in situazioni storico-sociali e ambientali completamente diverse, terminologie e concetti colturali estranei all’uso corrente oppure manipola fatti storici «pour épater l’auditoire».8
Il problema del contributo di Varenne de Fenille è già stato discusso in altro articolo.
Ora si attende che il professor Ciancio ci informi sull’individuazione di qualche altro scopritore della «selvicoltura» scientifica e delle «scienze forestali».

Definire un termine o un’espressione significa correntemente «Spiegare il significato di un termine o di un’espressione, descrivere qualcosa, precisarne il contenuto»; «individuare e formulare in modo comprensibile e per lo più seguendo determinati schemi il significato, o i significati, di un vocabolo (o di una locuzione). Nel linguaggio scientifico «esprimere il significato di un termine, precisare proprietà o relazioni di una grandezza o di un insieme di oggetti».9
La definizione del termine «selvicoltura», quindi la spiegazione che professor  Ciancio (1981) dà del suo significato, è esta:10

Raffaello, Platone e Aristotele (1506-1511)

Raffaello, Platone e Aristotele (1506-1511)

«La selvicoltura è la scienza sperimentale che studia le relazioni tra fenomeni naturali e le interazioni tra questi e le forme e le tecniche colturali idonee a conservare o ristabilire, nel loro equilibrio dinamico, la funzionalità delle biocenosi, e più in particolare delle fitocenosi forestali, in modo da assicurare all’uomo la perpetuità dei molteplici servigi che esse sono in grado di esplicare e l’uso razionale di questi».

Questa definizione del termine «selvicoltura» non soddisfa alcun requisito della logica formale ed è inutilizzabile per qualsivoglia applicazione od utilizzazione pratica.

Non vorrei scomodare il grande filosofo, perché Phyllis lo ha imbrigliato e lo sta beatamente cavalcando, ma sono costretto a richiamarmi alle sue autorevoli considerazioni in merito a cosa sia una «definizione».

Phyllis cavalca Aristotele

Aquamanile: Phyllis cavalca Aristotele

Non è forse il professor Ciancio ad aver disturbato Aristotele (parce sepulto), affinché con la sua autorevole “Parola” desse alla «novella teoria» («selvicoltura sistemica») «… una reale dignità di scienza» in virtù della quale «la selvicoltura rientra di diritto in quel classico e affascinante mondo degli aristotelici “Analitici secondi”».11  Per quanto riguarda la definizione di «selvicoltura» del professor Ciancio, il quale ha interpellato sfacciatamente per un’ovvietà (la coltivazione dei boschi) il sommo  Filosofo (e di questo si dovrebbe chieder venia), vorrei esprimere sommessamente il mio parere.
Questa non è una «Definizione», ma piuttosto un’abborracciata spiegazione, che non porta alcun chiarimento su cosa sia la «selvicoltura» e cosa la differenzi dalle «scienze forestali».
Da un punto di vista logico, definire un termine è cosa ben diversa dal dare una spiegazione o semplicemente fare un’affermazione. Aristotele ci ricorda che «L’espressione definitoria tende all’essenza e alla sostanza», riguarda la cosa stessa nel mondo e non la parola utilizzata per denotarla. «L’espressione definitoria consiste in un discorso, il quale spiega che cosa è un oggetto», «… Risulta evidente che, secondo un certo aspetto, l’espressione definitoria sarà un discorso, il quale spiega che cosa significa il nome di un oggetto, o comunque sarà un altro discorso equivalente al nome». 12
Per definire cos’è la «selvicoltura» (definiendum o explicandum), il professor Ciancio dà di questo termine una spiegazione (explicans o definiens) assolutamente inidonea a spiegare l’oggetto esaminato. Anziché usare termini semplici ed espressioni sintetiche congruenti con quanto si vuol definire, egli usa nell’espressione definitoria (explicans) concetti del tutto estranei, inappropriati a chiarire cosa sia la «selvicoltura». Le espressioni impiegate nel discorso di delucidazione non concorrono ad illustrare con precisione, in modo sintetico ed univoco l’oggetto esaminato («selvicoltura»), ma mediante un affastellamento di concetti e di termini complicati e del tutto estranei a quanto si vuol definire, rende incomprensibile quale sia la specialità, il settore di competenza della «selvicoltura» nell’ambito delle «scienze forestali». .
Affermare che la «selvicoltura» è una «scienza sperimentale», trascurando il dato etimologico che il termine designa un’attività (coltivare le selve – sylva-colĕre), stravolge consolidati riferimenti semantici. L’idea di «scienza sperimentale» è del tutto estranea allo scopo prefissato di spiegare cosa sia essenzialmente la «selvicoltura», che non può essere considerata «scienza sperimentale» in quanto questa espressione denota «il risultato delle operazioni di pensiero e di applicazioni sul piano pratico», nello specifico di prove o verifiche condotte con metodo sperimentale. Non si spiega che cosa si intende per «scienza sperimentale» e in quale contesto questa espressione può essere utilizzata.13 Nella proposizione (explicans) che deve delucidare, chiarire l’essenza dell’oggetto «selvicoltura» (definiendum) si introducono concetti più complessi, che a loro volta dovrebbero essere definiti («funzionalità delle biocenosi»; «conservare o ristabilire un equilibrio dinamico» delle «fitocenosi forestali»; «garantire una perpetuità dei servigi» che il bosco esplica, ecc.). Quindi, lungi dal chiarire l’oggetto di discussione, si introducono per spiegare cosa sia la «selvicoltura» espressioni e termini più complessi di ciò che si vuol spiegare e si fa riferimento a concetti che dovrebbero a loro volta essere chiariti, come ad esempio «relazioni fra fenomeni naturali» (senza illustrare a quali «fenomeni naturali» si faccia riferimento). Che cosa significa «relazioni» e, nello specifico, questi indefiniti «fenomeni naturali» come si «relazionano» tra loro, e quali sono le «interazioni tra questi e le forme e le tecniche colturali idonee a conservare o ristabilire, nel loro equilibrio dinamico, la funzionalità delle biocenosi». Del tutto incomprensibile è questa espressione che dovrebbe spiegare che cos’è la «selvicoltura»: «le forme e le tecniche colturali idonee a conservare o ristabilire, nel loro equilibrio dinamico, la funzionalità delle biocenosi».
A proposito di quest’ultima affermazione «garantire una perpetuità dei servigi» che il bosco esplica, vorrei far osservare che è colui che ha potestà sul bosco il soggetto che decide la destinazione d’uso del bosco e sceglie tra i «molteplici servigi» che un bosco può fornire, quello che più gli aggrada o gli conviene (il bosco in questa scelta è oggetto, non soggetto).

Nel corso degli oltre duemila anni che ci separano da Aristotele, il progresso delle scienze e della logica è stato enorme e il pensiero aristotelico ha prevalentemente un interesse storico per i filosofi e gli epistemologi, ma una rilevanza assai limitata per quanto riguarda la «selvicoltura», a quel tempo un’attività praticata per riscaldarsi e nutrirsi.
In ogni caso, Aristotele afferma che «
la conoscenza dimostrativa deve basarsi su cose vere, prime ed immediate, e più note, anteriori e cause della conclusione; perché in questo modo i principî saranno appropriati a ciò che deve essere dimostrato» e che «Può esserci un’inferenza senza queste condizioni, ma non può esserci una dimostrazione; perché non porterebbe conoscenza».14
Osserva però Barnes, a proposito degli “Analitici secondi”, che «… è un trattato sul metodo assiomatico – non si pone come obbiettivo lo sviluppo di una scienza, bensì l’esame del modo in cui una scienza dovrebbe essere sviluppata» e inoltre essi «… non descrivono l’attività del ricercatore scientifico – stabiliscono la forma in cui i risultati del ricercatore devono essere organizzati sistematicamente e resi pubblici».15
Ritengo sia piuttosto difficile che «i presupposti della «selvicoltura sistemica» divengano proposizioni idonee ad affrontare e risolvere il problema forestale in una visione d’insieme», a meno che il professor Ciancio spieghi quali «… siano gli assiomi «veri e immediati primi» su cui fondare la nostra conoscenza dei teoremi che regolano la «selvicoltura sistemica». Questi assiomi dovrebbero essere illustrati anche a chi (come me) non è in grado di sopportare «uno sforzo culturale associato al tentativo di cancellare dalla memoria i pregiudizi che una tale problematica, che investe aspetti scientifici, tecnici, economici ed etici, pone a professionisti abituati a esaminare e vedere le cose con i “tempi forestali”».16
L’affermazione che «Essa [la «selvicoltura sistemica»] permette di ottenere la risposta proveniente dall’asserzione scientifica in cui la protasi indica quali operazioni sono da compiersi in certe condizioni e l’apodosi le risultanze attese», non ha alcun requisito per soddisfare gli assiomi logici aristotelici. Dall’asserzione che la «selvicoltura sistemica» è scientifica si possano dedurre solo fideisticamente «quali operazioni sono da compiersi in certe condizioni» (protasi) per realizzare determinate aspettative, «risultanti attesi» (apodosi).
La validità di una teoria deriva da un insieme di fatti o circostanze che permettono di concludere (inferire) la verità o falsità della proposizione. Questa non è una proposizione logica («un discorso che afferma o nega qualcosa rispetto a qualcosa», Aristotele, “
Primi Analitici”), ma semplicemente un’asserzione illogica, priva oltretutto di ogni ogni fondamento fattuale, sperimentalmente convalidato, attestante la validità dell’assunto. «I giudizi singolari non vengono presi in considerazione negli Analitici, perché per Aristotele la scienza si occupa delle affermazioni universali, che riguardano cioè tutti gli oggetti di un certo tipo, e perché il termine singolare può svolgere solo il ruolo di soggetto e non quello di predicato».17

In che modo la «selvicoltura sistemica» sia in grado di cogliere la totalità degli aspetti biologico-naturalistici e socio-economici del bosco non è dato di capire, ma, ad ogni buon conto, si afferma che questo moderno «paradigma» rappresenta il superamento della «selvicoltura classica». Questa controversia tra «selvicoltura classica» e «selvicoltura sistemica» ruota, infatti, attorno ad opinioni personali, ad un sistematico travisamento terminologico e a argomentazioni retoriche, che sfuggono ai principi elementari dell’analisi critica. Si può concordare con il professor Ciancio che «le aggettivazioni e le perifrasi inerenti alla selvicoltura sono talmente tante che oggettivamente è difficile sapere a quale forma colturale ciascuno degli interlocutori faccia riferimento».
Non credo esista maggior confusione terminologica dell’attuale modo di illustrare cosa sia la «selvicoltura», figurarsi quando si parla di «selvicoltura naturalistica», di «selvicoltura su basi ecologiche», e così via. Ora l’apporto del professor Ciancio al chiarimento di cosa si intenda per «selvicoltura» e per «scienze forestali» è stato assai modesto e le idee anche tra i sostenitori della «selvicoltura sistemica» sono piuttosto confuse. Il professor Ciancio ha elegantemente risolto il problema mettendo in un unico contenitore, etichettato come «selvicoltura classica», le precedenti «selvicolture» («selvicoltura naturalistica», «selvicoltura su basi ecologiche», ecc.).
Questo lo ha dispensato dal confrontarsi con gli indirizzi e i modi adottati per coltivare e gestire il bosco.
In fondo l’aggettivo «classico» accontenta un po’ tutti e non impegna l’autore ad analizzare da vicino e a pronunciarsi in merito all’efficacia e all’adeguatezza dei diversi sistemi selvicolturali in uso. L’aggettivo «classico» dà un’aura di rispettabilità e di dignità a tutti i tipi e metodi selvicolturali (tranne forse per la «selvicoltura finanziaria», assai poco impiegata nel nostro paese), senza peraltro significare un gran che; ma è difficile disapprovare ciò che vien designato come «classico». In fondo, questo rassicurante termine serve talvolta per rifilare degli obsoleti «fondi di magazzino» o dei prodotti ormai scaduti, che vanno rispettosamente eliminati e sostituiti dal «nuovo». Anche la «selvicoltura sistemica» è un «nuovo paradigma», che supera ogni tipo ed ogni modo precedente «classico» di coltivare ed utilizzare il bosco. «Questa nuova visione ha fortemente incrinato le tradizionali concezioni che consideravano il bosco un insieme di alberi, ovvero una officina a cielo aperto per produrre legno. In nessun settore delle scienze forestali un tale mutamento concettuale appare più evidente di quanto non lo sia nel principio della selvicoltura sistemica».

Talvolta è bene coltivare illusioni e crearsi rassicuranti convinzioni, ma non mi pare sia sostanzialmente diminuito tra i «forestali» pratici, non accademici l’interesse per la «La selvicoltura classica, quella che attualmente si insegna nelle università« «… espressione teorica e pratica della concezione newtoniana secondo la quale le leggi hanno origine sperimentale».18  Purtroppo continuo «a pensare come Francis Bacon che nel 1620, nel Novum Organum Scientiarum scriveva: “La natura è una donna pubblica; noi dobbiamo domarla, penetrarne i segreti e incatenarla secondo i nostri desideri”».
Checché ne pensi il professor Ciancio, si tratta di un’efficace metafora per dire che «la scienza può e deve trasformare le condizioni della vita umana; alla logica della dimostrazione e della persuasione va sostituita una logica dell’invenzione e della scoperta volta a costruire invece che a contemplare; l’estensione del potere dell’uomo sulla natura è opera non di un singolo ricercatore, ma necessariamente di una collettività organizzata di scienziati finanziata dallo stato o da enti di pubblica utilità; il sapere ha, all’interno del mondo storico ed umano, una precisa funzione pratica, la verità di una teoria scientifica coincide con la sua utilità pratica, una teoria sterile è anche una teoria falsa: “ciò che è più utile in pratica è più giusto in teoria”».19

Francis BaconNon vorrei che si verificasse quanto Bacone paventava e cioè che «dopo che una determinata scienza, mediante il lavoro e l’osservazione di molti che apprendono reciprocamente l’uno dall’altro, è stata seriamente affrontata e trattata nelle sue singole parti, sorge qualcuno dallo spirito presuntuoso, dal linguaggio potente e dal metodo popolare che a suo arbitrio costituisce un unico sistema da queste singole parti e lo trasmette alla posterità. In questo compendio tutto viene corrotto e depravato e vengono inevitabilmente omessi come opinioni esagerate e stravaganti tutti quei passaggi che possono presentare le contemplazioni più alte e degne».20

 

  1. Ciancio Orazio, 2008 – Quale selvicoltura nel XXI secolo?. Atti del Terzo Congresso Nazionale di Selvicoltura per il miglioramento e la conservazione dei boschi italiani, 16-19 ottobre 2008, Taormina (Messina). Accademia Italiana di Scienze Forestali, Tipografia Coppini, Firenze, 2009, p. 5.
  2. Se “la selvicoltura è [la] scienza sperimentale” (come sostiene anche Ciancio), essa dovrà necessariamente far riferimento ai metodi d’indagine sperimentali, che prendono avvio nel XVII e XVIII secolo, (cfr. Henry E. Lowood).
  3. «Già nel XIII secolo alcuni ordini religiosi tutelarono molti boschi e ne impiantarono dei nuovi. Basti ricordare l’opera dei Benedettini che crearono le pinete di Ravenna, quella dei Camaldolesi e dei Vallombrosani che curarono e ampliarono le foreste di Camaldoli e di Vallombrosa»
  4. «Il bolognese Piero De Crescenzi (1233-1320), fin dal 1304 aveva raccolto in una pregevole opera – Liber Commodorum Ruralium –, tutto quanto avevano scritto gli antichi classici in materia di agricoltura e di foreste. Il suo libro per diversi secoli fu l’unica fonte a cui attinsero i forestali europei. Il Liber – noto anche come Trattato dell’Agricoltura – conobbe immensa diffusione…».
  5. Le Goff Jean, 2010 – Il Deserto-Foresta nell’Occidente medioevale, in «Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medioevale», Laterza Ed., Bari, p. 108.
  6. Il trattato di De Crescenzi ha avuto un ruolo importante sulla diffusione delle conoscenze dell’agricoltura e dell’allevamento, ma il suo contributo in materia di coltivazione dei boschi è marginale. M. Ambrosoli nel suo libro «Scienziati, contadini e proprietari: botanica e agricoltura nell’Europa occidentale, 1350–1850», (Einaudi Ed., Torino 1992, cap. II, «Tra agronomia medievale e agricoltura rinascimentale», pp. 44–102),  mette in rilievo che l’edizione manoscritta dell’opera (un centinaio di manoscritti) fu accessibile solo agli ambienti di corte e alla nobiltà laica o ecclesiastica fino alle prime edizioni a stampa edite in lingua latina (Augusta 1471, Lovanio 1474 e Strasburgo 1486). Le successive traduzioni, fruibili dall’intera cultura occidentale, furono utilizzate all’incirca fino al 1550, quando nelle diverse aree geografiche si produssero specifici testi agronomici. La diffusione e l’influenza dello scritto di questo autore fu piuttosto limitata e i lettori, in base a queste ricerche filologiche, furono numericamente esigui.
  7. L’opera di Ibn al-‘Awwām «Kitāb al-filāḥa»(«Libro de agricultura», traduzione spagnola Ebn El Awam – 1878), conosciuta alla corte di Federico II, nella Spagna meridionale e nel Mediterraneo, ha avuto limitata diffusione in Europa probabilmente per la difficoltà di traduzione e il prevalente interesse per le colture nell’area mediterranea. Essa però riveste un’importanza ben maggiore dell’opera di Pier de’ Crescenzi, il quale ripete vuote formule peripatetiche, dimostrando, per le parti che gli sono note, di trascrivere persino le nozioni di Columella senza percepire i problemi biologici lucidamente intuiti dall’agronomo iberico. Saltini Antonio, 1984 – Storia delle scienze agrarie.
  8. «È piuttosto azzardato parlare di «selvicoltura», riferendosi al moderno concetto di questa scienza, per epoche, nelle quali non vi era una codificazione nei trattamenti e nelle tecniche applicate al bosco», (F. Salbitano, «Per uno studio delle modificazioni del paesaggio forestale: il caso del monte Catria», in «Il bosco nel Medioevo», a cura di Andreolli B., Montanari M., Clueb Ed., Bologna, p. 296). Su questo problema si veda anche: P. Piussi, 1983 – «Considerazioni su problemi e significato della storia forestale». L’Italia forestale e montana, 38 (3), 68-69, e D. Moreno, 1982 – «Storia e archeologia forestale». Quaderni Storici», n. 49, p. 7-15.
  9. Va quindi individuato anche il «suo nucleo semantico e tutte le sue possibili espansioni, specificandone insieme la funzione e l’uso nei diversi contesti di cui può far parte nel discorso», vfr. Definizione
  10. Ciancio Orazio, 1981 – I massimi sistemi in selvicoltura. Annali. Accademia Italiana di Scienze Forestali, Firenze. Vol. XXX: 113-142.46)
  11. Ciancio Orazio, 2013 – Il principio di polarità e la nuova concezione della selvicoltura. L’Italia Forestale e Montana, 68 (1): 3-10.
  12. Aristotele, Analitici Secondi.
  13. Devoto Giacomo & Oli Giancarlo, 2000 – Il dizionario della lingua italiana. Le Monnier, Firenze
  14. Aristotele, Analitici secondi, 1. 2. 71 b, 19-25.
  15. Barnes Jonathan, 2002 –  Aristotele, Einaudi Ed., Torino, p. 57-58.
  16. Ciancio Orazio, 2011 – Annali Accademia Italiana Scienze Forestali, Vol. LX, 2011: 3-12, Tipografia Coppini, Firenze
  17. Ferraris M., «Pensiero: che cosa significa pensare». Le domande della Filosofia, Biblioteca della Repubblica, 2013.
  18. Ciancio Orazio, 2009 – La ricerca in selvicoltura ed ecologia forestale: tra realismo dogmatico e conoscenza del bosco. Forest@ 6: 376-378 [online: 2009-11-23] – doi: 10.3832/efor0602-006.
  19. Rossi Paolo, 1954 – Prefazione a «Bacone, La nuova Atlantide e altri scritti. Universale economica, vol. 183, Cooperativa del libro popolare, Milano.
  20. Bacone Francesco, La confutazione della filosofia, in  «Bacone, La nuova Atlantide e altri scritti. Universale economica, vol. 183, Cooperativa del libro popolare, Milano, p. 108.

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